Riflessioni su M. Heidegger, a partire da un romanzo
I “Quaderni neri” di M.
Heidegger, pubblicati in Germania lo scorso anno, hanno riacceso il dibattito
su questo filosofo, tra i maggiori del ‘900 (anzi, secondo molti studiosi, il
maggiore) ma anche tra i più dibattuti, a causa della sua adesione al
nazionalsocialismo e al suo totale silenzio sulla Shoah, anche terminata la
guerra. Poiché si tratta di un autore che tuttora esercita un’influenza
rilevante - anche e non solo - nell’attuale panorama della filosofia italiana
(basti pensare alle posizioni di E. Severino, U. Galimberti, G. Vattimo….),
credo valga la pena di parlarne.
Ho pensato di iniziare a farlo
presentando un romanzo piacevole a lui dedicato, il cui titolo è “L’ombra di Heidegger”, pubblicato
dall’editore Neri Pozza, di cui è autore J. P. Feinmann, scrittore argentino
oltre che insegnante di filosofia.
Protagonista del romanzo è un
docente universitario di filosofia, Dieter Müller, che è stato ammaliato dal genio
di Heidegger, già prima e ancor più dopo la comparsa di Essere e tempo, capolavoro del filosofo, libro che gli cambia e
segna profondamente la vita; segue le sue lezioni prima a Marburgo e poi a
Friburgo, contribuisce alla diffusione del suo pensiero, condividendolo con profonda
convinzione.
Müller, al termine della seconda
guerra mondiale, scrive una lunga lettera al figlio - che ha chiamato Martin
come il filosofo-maestro -, in cui racconta la sua vicenda intellettuale e
personale (fra l’altro, descrive il suo incontro a Berlino, avvenuto nel 1932, con
una ragazza comunista che partecipa ad uno scontro contro i nazisti, che egli
salva da un violento pestaggio e che diverrà la madre di suo figlio; parla poi
di un incontro in una soffitta con Hanna Arendt, la filosofa allieva di
Heidegger, del quale era divenuta amante e col quale manterrà un rapporto
sentimentale fino al termine della sua vita, nonostante i distacchi e la
diversità delle idee politiche) sullo sfondo dell’avvento al potere del
nazionalsocialismo e della nomina a Rettore dell’università di Friburgo di M.
Heidegger, nel 1933. È il periodo della luna di miele del filosofo con il
nazionalsocialismo, di cui aspira a divenire il Führer ideologico, a fianco del
Führer politico. Al discorso d’insediamento, che verte prevalentemente su un
proposta di radicale ristrutturazione dell’Università, assiste anche Müller, in
compagnia della giovane precedentemente conosciuta, e ne esce entusiasta, decidendo di iscriversi
al partito nazista; la sua adesione si rinforza dopo l’Appello agli studenti di Heidegger, nell’ambito del quale il
riferimento al nazionalsocialismo è esplicito. Le lotte interne al movimento,
che vedono da una parte coloro – in particolare le SA, squadre di assalto - che
auspicano una radicalizzazione del movimento e fra i quali l’autore del romanzo
colloca anche Heidegger, e dall’altra coloro, a favore dei quali si schiera
Hitler, che preferiscono una stabilizzazione del potere perseguendo l’appoggio
dell’esercito e del padronato capitalistico, sfociano nella cruenta notte dei
lunghi coltelli, durante la quale le SA vengono in gran parte sterminate. Heidegger
viene risparmiato e, pur dimettendosi dalla carica di Rettore e
differenziandosi dalla linea ideologica vincente, dà una svolta al suo pensiero
intrecciandolo al nazionalsocialismo, individuando in esso la forza capace di
contrapporsi alla tenaglia dei nemici rappresentati dal capitalismo
mercantilistico ebraico-americano e dal bolscevismo collettivista e di
raddrizzare il destino della civiltà occidentale liberando gli enti (uomini e
cose) dal dominio della Tecnica.
Heidegger, anche se vive
appartato e in condizioni di sorvegliato dalla Gestapo per le sue idee difformi
rispetto alla linea dominante di Rosenberg e Göring, non solo non rinnega la
sua fiducia nel nazionalsocialismo, ma continuerà a versare la quota di
iscrizione al partito fino al 1945; emerge poi nel romanzo un atteggiamento di
sostanziale allineamento con le posizioni naziste assunte nei confronti degli
ebrei, nonostante il suo rapporto sentimentale con la Arendt e con altre
allieve ebree; fra l’altro si presenta a Roma, nel 1936, ad un incontro con K.
Löwith, filosofo ebreo suo amico, con il
distintivo con la croce uncinata all’occhiello
della giacca.
La svolta che il
nazionalsocialismo subisce dopo la notte dei lunghi coltelli e l’antisemitismo,
che dal piano teorico si trasforma in azioni di soppressione delle persone,
provocano invece in Müller una reazione diversa: approfittando dell’opportunità
offertagli dalle autorità universitarie di recarsi a Parigi, nel periodo
successivo all’occupazione militare da parte tedesca, per tenere un ciclo di
conferenze sulla filosofia tedesca, fugge in Argentina.
Terminata la guerra, Müller si
trova davanti alla fotografia di un ebreo nudo che va verso le docce di un
campo di sterminio; si rende conto dell’atrocità e dell’assurdità di un regime
che ha ridotto milioni di persone a ossa e immondizia, che ha calpestato la
loro soggettività, la loro identità personale prima di annientarle fisicamente.
Non regge al senso di colpa e, riconoscendo di non avere “voluto sapere” quel
che stava avvenendo in Germania e considerandosi complice dei delitti compiuti
dal nazionalsocialismo, si uccide.
Il figlio, Martin, che ha seguito
le orme del padre dedicandosi alla filosofia e approfondendo il pensiero di
Heidegger, decide di andare a trovare il grande filosofo, il “maestro”, nella
sua casa nella Foresta Nera, perché vuole avere con lui un dialogo. Non gli
pone, però, domande sull’Essere e sull’oblio a cui è stato sottoposto in modo
accentuato dal tecno-capitalismo che si è gettato nella conquista e nella
manipolazione delle cose e degli uomini; gli mostra, invece, la fotografia
dell’uomo nudo che corre verso la camera a gas, davanti alla quale suo padre
aveva compreso la mostruosità di quanto la Germania aveva compiuto e di cui si
era sentito complice, e gli chiede che cosa pensa di fare, aspettandosi da lui
il riconoscimento di un pentimento analogo a quello del padre. Heidegger, però,
non solo non risponde, ma non lo guarda nemmeno in faccia, anzi segue con evidente
fastidio le sue parole; ad un certo punto, senza dire nulla, si allontana dalla
stanza, lasciandolo solo.
Il romanzo tratteggia, in modo
sintetico ma efficace, il periodo storico dell’avvento e dello sviluppo del
nazionalsocialismo, all’interno del quale viene collocata la figura di Heidegger,
che emerge nella sua profonda ambiguità, come una specie di Giano bifronte: da
un lato, gigante del pensiero tedesco (e non solo) e, dall’altro, filosofo scomodo
per le sue posizioni sconcertanti a livello politico ed etico.
Questo giudizio è condiviso da F.
Volpi, uno dei maggiori studiosi italiani di Heidegger, che ha scritto, insieme ad A.
Gnoli, una postfazione al romanzo di Feinmann, dove, nel rilevare “l’ostinato e
ingombrante silenzio del maestro teutonico dopo la guerra”, riconosce a
Feinmann di avere, con una finzione letteraria, messo a fuoco il problema della
“compromissione di Heidegger con il nazionalsocialismo, e più in generale il
rapporto della sua filosofia con l’etica e la politica”.
A differenza di altre precedenti
prese di posizione a favore di Heidegger,
F. Volpi riconosce in questo scritto la “torbida e pericolosa ambiguità
del pensiero di Heidegger”, divenuto via via, dopo la famosa svolta successiva
a Essere e tempo, “lo sciamano di
un’intera generazione…. pifferaio magico della filosofia teutonica”.
È un libro, in sintesi, che
spinge a riflettere su un pensatore che ha inciso profondamente su gran parte
della filosofia contemporanea (quella cosiddetta “continentale”), ma le cui scelte
politiche e atteggiamenti etici proiettano un’ombra inquietante che rischia di
allungarsi anche sul suo pensiero.
Mario Martini