domenica 1 marzo 2015

Riflessioni su M. Heidegger, a partire da un romanzo

I “Quaderni neri” di M. Heidegger, pubblicati in Germania lo scorso anno, hanno riacceso il dibattito su questo filosofo, tra i maggiori del ‘900 (anzi, secondo molti studiosi, il maggiore) ma anche tra i più dibattuti, a causa della sua adesione al nazionalsocialismo e al suo totale silenzio sulla Shoah, anche terminata la guerra. Poiché si tratta di un autore che tuttora esercita un’influenza rilevante - anche e non solo - nell’attuale panorama della filosofia italiana (basti pensare alle posizioni di E. Severino, U. Galimberti, G. Vattimo….), credo valga la pena di parlarne.

Ho pensato di iniziare a farlo presentando un romanzo piacevole a lui dedicato, il cui titolo è “L’ombra di Heidegger”, pubblicato dall’editore Neri Pozza, di cui è autore J. P. Feinmann, scrittore argentino oltre che insegnante di filosofia.
Protagonista del romanzo è un docente universitario di filosofia, Dieter Müller, che è stato ammaliato dal genio di Heidegger, già prima e ancor più dopo la comparsa di Essere e tempo, capolavoro del filosofo, libro che gli cambia e segna profondamente la vita; segue le sue lezioni prima a Marburgo e poi a Friburgo, contribuisce alla diffusione del suo pensiero, condividendolo con profonda convinzione.
Müller, al termine della seconda guerra mondiale, scrive una lunga lettera al figlio - che ha chiamato Martin come il filosofo-maestro -, in cui racconta la sua vicenda intellettuale e personale (fra l’altro, descrive il suo incontro a Berlino, avvenuto nel 1932, con una ragazza comunista che partecipa ad uno scontro contro i nazisti, che egli salva da un violento pestaggio e che diverrà la madre di suo figlio; parla poi di un incontro in una soffitta con Hanna Arendt, la filosofa allieva di Heidegger, del quale era divenuta amante e col quale manterrà un rapporto sentimentale fino al termine della sua vita, nonostante i distacchi e la diversità delle idee politiche) sullo sfondo dell’avvento al potere del nazionalsocialismo e della nomina a Rettore dell’università di Friburgo di M. Heidegger, nel 1933. È il periodo della luna di miele del filosofo con il nazionalsocialismo, di cui aspira a divenire il Führer ideologico, a fianco del Führer politico. Al discorso d’insediamento, che verte prevalentemente su un proposta di radicale ristrutturazione dell’Università, assiste anche Müller, in compagnia della giovane precedentemente conosciuta,  e ne esce entusiasta, decidendo di iscriversi al partito nazista; la sua adesione si rinforza dopo l’Appello agli studenti di Heidegger, nell’ambito del quale il riferimento al nazionalsocialismo è esplicito. Le lotte interne al movimento, che vedono da una parte coloro – in particolare le SA, squadre di assalto - che auspicano una radicalizzazione del movimento e fra i quali l’autore del romanzo colloca anche Heidegger, e dall’altra coloro, a favore dei quali si schiera Hitler, che preferiscono una stabilizzazione del potere perseguendo l’appoggio dell’esercito e del padronato capitalistico, sfociano nella cruenta notte dei lunghi coltelli, durante la quale le SA vengono in gran parte sterminate. Heidegger viene risparmiato e, pur dimettendosi dalla carica di Rettore e differenziandosi dalla linea ideologica vincente, dà una svolta al suo pensiero intrecciandolo al nazionalsocialismo, individuando in esso la forza capace di contrapporsi alla tenaglia dei nemici rappresentati dal capitalismo mercantilistico ebraico-americano e dal bolscevismo collettivista e di raddrizzare il destino della civiltà occidentale liberando gli enti (uomini e cose) dal dominio della Tecnica.
Heidegger, anche se vive appartato e in condizioni di sorvegliato dalla Gestapo per le sue idee difformi rispetto alla linea dominante di Rosenberg e Göring, non solo non rinnega la sua fiducia nel nazionalsocialismo, ma continuerà a versare la quota di iscrizione al partito fino al 1945; emerge poi nel romanzo un atteggiamento di sostanziale allineamento con le posizioni naziste assunte nei confronti degli ebrei, nonostante il suo rapporto sentimentale con la Arendt e con altre allieve ebree; fra l’altro si presenta a Roma, nel 1936, ad un incontro con K. Löwith, filosofo ebreo suo amico, con  il distintivo con la croce uncinata  all’occhiello della giacca.
La svolta che il nazionalsocialismo subisce dopo la notte dei lunghi coltelli e l’antisemitismo, che dal piano teorico si trasforma in azioni di soppressione delle persone, provocano invece in Müller una reazione diversa: approfittando dell’opportunità offertagli dalle autorità universitarie di recarsi a Parigi, nel periodo successivo all’occupazione militare da parte tedesca, per tenere un ciclo di conferenze sulla filosofia tedesca, fugge in Argentina.
Terminata la guerra, Müller si trova davanti alla fotografia di un ebreo nudo che va verso le docce di un campo di sterminio; si rende conto dell’atrocità e dell’assurdità di un regime che ha ridotto milioni di persone a ossa e immondizia, che ha calpestato la loro soggettività, la loro identità personale prima di annientarle fisicamente. Non regge al senso di colpa e, riconoscendo di non avere “voluto sapere” quel che stava avvenendo in Germania e considerandosi complice dei delitti compiuti dal nazionalsocialismo, si uccide.
Il figlio, Martin, che ha seguito le orme del padre dedicandosi alla filosofia e approfondendo il pensiero di Heidegger, decide di andare a trovare il grande filosofo, il “maestro”, nella sua casa nella Foresta Nera, perché vuole avere con lui un dialogo. Non gli pone, però, domande sull’Essere e sull’oblio a cui è stato sottoposto in modo accentuato dal tecno-capitalismo che si è gettato nella conquista e nella manipolazione delle cose e degli uomini; gli mostra, invece, la fotografia dell’uomo nudo che corre verso la camera a gas, davanti alla quale suo padre aveva compreso la mostruosità di quanto la Germania aveva compiuto e di cui si era sentito complice, e gli chiede che cosa pensa di fare, aspettandosi da lui il riconoscimento di un pentimento analogo a quello del padre. Heidegger, però, non solo non risponde, ma non lo guarda nemmeno in faccia, anzi segue con evidente fastidio le sue parole; ad un certo punto, senza dire nulla, si allontana dalla stanza, lasciandolo solo.

Il romanzo tratteggia, in modo sintetico ma efficace, il periodo storico dell’avvento e dello sviluppo del nazionalsocialismo, all’interno del quale viene collocata la figura di Heidegger, che emerge nella sua profonda ambiguità, come una specie di Giano bifronte: da un lato, gigante del pensiero tedesco (e non solo) e, dall’altro, filosofo scomodo per le sue posizioni sconcertanti a livello politico ed etico.
Questo giudizio è condiviso da F. Volpi, uno dei maggiori studiosi italiani di  Heidegger, che ha scritto, insieme ad A. Gnoli, una postfazione al romanzo di Feinmann, dove, nel rilevare “l’ostinato e ingombrante silenzio del maestro teutonico dopo la guerra”, riconosce a Feinmann di avere, con una finzione letteraria, messo a fuoco il problema della “compromissione di Heidegger con il nazionalsocialismo, e più in generale il rapporto della sua filosofia con l’etica e la politica”.
A differenza di altre precedenti prese di posizione a favore di Heidegger,  F. Volpi riconosce in questo scritto la “torbida e pericolosa ambiguità del pensiero di Heidegger”, divenuto via via, dopo la famosa svolta successiva a Essere e tempo, “lo sciamano di un’intera generazione…. pifferaio magico della filosofia teutonica”.

È un libro, in sintesi, che spinge a riflettere su un pensatore che ha inciso profondamente su gran parte della filosofia contemporanea (quella cosiddetta “continentale”), ma le cui scelte politiche e atteggiamenti etici proiettano un’ombra inquietante che rischia di allungarsi anche sul suo pensiero.

Mario Martini